Caro Francis, spesso, durante la meditazione, sorgono delle sensazioni forti di spiacevolezza come, per esempio, paura, pena, angoscia ecc.
Quando ciò accade, se ci si rivolge alla sensazione senza pensieri, il risultato, di solito, è che il corpo si scuote ed ha degli spasmi per un paio di minuti, dopo di che sorgono sensazioni piacevoli di unità e di pace. Talvolta, invece di immergermi nella sensazione spiacevole, viene posta la domanda: “Chi sta sperimentando questa sensazione?” Focalizzando la consapevolezza su “ciò che sperimenta”, invece della sensazione spiacevole, ne derivano, talvolta, sensazioni di unità e di pace, (sebbene questo accada meno frequentemente e le sensazioni di unità e di pace siano meno “dirette”). Quest’ultimo approccio è il migliore? Il primo sembra più “efficace” mentre nell’ultimo, talvolta, c’è una sensazione di soppressione. Sebbene io apprezzi certamente la sparizione delle sensazioni “spiacevoli” e l’esperienza di sensazioni “confortevoli”, la mia motivazione resta la coltivazione della saggezza e l’apertura alla verità. Qualche suggerimento? Tante grazie, George
Caro George,
Il fatto che tu abbia due diverse opzioni indica che in entrambi i casi stai facendo qualcosa. Qual è l’obiettivo di questa pratiche? Non è forse quello di liberarsi della spiacevolezza generata da quelle sensazioni? Se è così, potremmo chiamare una tale pratica “accettazione”? Nel primo caso ti focalizzi sulla sensazione allo scopo di non sentirla più e nel secondo ti focalizzi su qualcos’altro allo scopo, probabilmente, di evitare la sensazione.
La vera accettazione, che raccomando nel tuo caso, è di accettare semplicemente la sensazione, ed anche qualunque altra cosa che sorga nel campo della consapevolezza, con benevole indifferenza.
La consapevolezza stessa è questo accettare non focalizzato, senza giudicare, senza meta. Ti rivolgi semplicemente al naturale funzionamento della consapevolezza senza focalizzarti sulla sensazione spiacevole o sul concetto o sulla sensazione dell’“io sono”. Ciò permette alla sensazione di raccontare il resto della sua storia dandole lo spazio ed il tempo necessari per farlo. In questa contemplazione, semplicemente ti poni come presenza impersonale.
Se il mio suggerimento sembra difficile da seguire, vorrei raccomandarti, come seconda scelta, il primo dei due approcci che hai descritto, purchè la tua investigazione sulla natura del sé non sia confinata al campo dei pensieri o al campo delle sensazioni corporee. Essa deve avere un’ampiezza illimitata e dev’essere condotta con l’intenzione di scoprire realmente la risposta vivente alla domanda “cosa sono io?” e non quella di eliminare la sensazione spiacevole. Questo approccio ti condurrà alla fine a quello che io raccomando.
Con amore,
Francis
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