Luogo: Cork
Francis, la mia domanda riguarda il senso del “mè”; il senso del “mè” è sentito molto facilmente ed ho la sensazione che sia lo stesso senso dell’“Io sono”. E’ necessario distinguere fra i due? Inoltre, ho letto Nisargadatta che raccomanda di “mantenere il senso dell’Io Sono”. Attuando questa pratica, il me sta trattenendo il me? C’è una meta per quest’azione? Questo non la rende una pratica dualistica? Ti ringrazio molto, LLoyd.
Caro LLoyd, hai fatte le seguenti domande:
Non c’è differenza fra “Io” e “Io Sono” dato che noi siamo entrambi. “Io” si riferisce ad un soggetto, una persona, mentre “sono” si riferisce ad un’azione, quella di essere. La Coscienza, la nostra realtà, il nostro essere, non è una persona e tanto meno un’azione: è entrambe e nessuna delle due. Le parole a nostra disposizione non potranno mai descriverla pienamente: esse sono semplicemente degli indicatori.
Il senso del “Io Sono” è un oggetto percepito. Mantenerlo è una pratica spirituale che fa parte del sentiero yogico. Esso richiede sforzo e concentrazione. Grazie a questa pratica, i pensieri dell’Io e le sensazioni dell’Io sono visti per ciò che sono: oggetti limitati che appaiono nella coscienza. Ciò, a sua volta, disidentifica la coscienza da questi oggetti e, temporaneamente, mette l’ignoranza in stallo rendendo possibile il fatto che la coscienza, ad un certo punto, possa percepire se stessa nella sua libertà assoluta. Se scopri un serpente a sonagli nel tuo garage, il fatto di mantenere gli occhi sul serpente ti permette di raggiungere la sicurezza della tua stanza così come focalizzarsi sul senso del mè ci rende capaci di accedere alla pace della nostra vera natura.
Dal momento in cui questa percezione ha avuto luogo, non importa quanto fugacemente, tutti gli sforzi per visualizzare la coscienza cessano gradualmente. L’auto-indagine continua senza sforzo, dissolvendo sul suo sentiero tutti i residui d’ignoranza. Lo yogi è diventato uno jnani. Il semplice pensiero o la sensazione della sua vera natura lo porta direttamente alla visione del suo amato.
Ciò che lo mantiene sul “mè” è il desiderio della liberazione, che è l’amore in cerca di se stesso. Il mè che viene mantenuto è un oggetto, un pensiero o una sensazione.
C’è una pratica dualistica fino a quando persiste la credenza in una coscienza oggettiva, separata ed individuale, che cerca la liberazione attraverso questa pratica. In questo caso la meta è un oggetto, uno stato da raggiungere grazie a questo cercatore personale. Ad un certo punto ha luogo un cambiamento grazie alla comprensione del fatto che ciò che noi siamo non è un oggetto, grossolano o sottile, e ci scopriamo aperti alla possibilità che la coscienza sia divina ed illimitata. Nel momento in cui siamo completamente aperti a questa possibilità, la coscienza si rivela per ciò che è veramente: intelligenza infinita, amore illimitato, splendore assoluto, e pone fine alla nostra sofferenza.
Con amore,
Francis
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